“Con l’amore materno la vita ci fa all’alba una promessa che non manterrà mai.”
È questa la frase che, posta all’inizio di Bambini nel bosco, ha acceso in me una profonda curiosità verso il libro da cui era tratta, La promessa dell’alba.
Così, dopo aver letto qualche recensione nel web, visto che il mio compleanno si avvicinava, ho deciso che La promessa dell’alba, libro non presente nella mia biblioteca comunale, era un libro che volevo avere in regalo.
E così è stato.
(Di questo e di altri libri che mi hanno regalato vi parlo in questo video!)
Romain Gary, La promessa dell’alba
Innanzitutto ci troviamo davanti a un racconto autobiografico, che sta a metà fra un memoir e un diario personale scritto a posteriori: Romain Gary parla di se stesso, della sua vita e ciò che narra è realmente accaduto. Realmente accaduto proprio a lui.
Da quanto avevo letto in internet, però, non avevo capito esattamente di cosa si trattasse: semplicemente, ero rimasta molto colpita dallo stile dell’autore e dal suo fare schietto, onesto. E avevo intuito che si trattava di un racconto di un uomo che, nella vita, ha fatto tutto ciò che ha fatto ed è diventato ciò che è diventato solamente per far piacere a sua madre.
Ciò che non avevo capito è che si tratta di molto di più di questo.
È vero: è un uomo che diventa tutto ciò che sua madre aveva voluto per lui, ma non è – come pensavo io – un uomo schiacciato dal peso della scelta mancata, schiacciato dalla volontà della madre che ha annichilito la sua. No: è un uomo cresciuto da una madre sola, che ha visto, giorno dopo giorno, tutti i sacrifici che la madre faceva per lui, tutte le privazioni, tutte le fatiche e tutto l’amore che gli dedicava. E ha deciso che avrebbe fatto qualunque cosa lei volesse, pur di farla contenta. Non è stata una rinuncia alle proprie ambizioni, è stato l’unico modo per ricambiare tutti gli atti d’amore della madre verso di lui.
Certo, io, lettrice, talvolta non l’ho pensata allo stesso modo: talvolta ho odiato quella madre che forgiava il figlio a piacimento, come se fosse una bambola di cera, che lo manipolava affinché potesse essere ciò che lei voleva. L’ho odiata perché l’ha privato della libertà. Lui, però, non la pensava allo stesso modo: certo, c’erano momenti in cui si sentiva schiacciato dal peso della speranza riposta dalla madre in lui, ma poi tutto ciò che lei aveva fatto per lui gli tornava alla memoria e capiva per quale motivo era necessario assecondarla.
“(Mia madre) non fece fatica a sbugiardare i suoi calunniatori, ma la vergogna, il dispiacere e l’indignazione assunsero in lei, come sempre, una forma violentemente aggressiva.
Dopo aver singhiozzato per alcune ore (…) mi prese per mano e, annunciandomi: «Non sanno con chi hanno a che fare», mi trascinò fuori dall’appartamento, sulle scale. Quel che seguì fu uno dei momenti più atroci della mia vita.
(…)
«Piccoli, sporchi pidocchi borghesi! Non sapete con chi avete l’onore di parlare! Mio figlio sarà ambasciatore di Francia, cavaliere della Legion d’Onore, grande attore drammatico, Ibsen, Gabriele d’Annunzio! Si, si…»
Cercò qualcosa che li annientasse, una dimostrazione definitiva e suprema di successo materiale.
«…si vestirà a Londra!»
Ho ancora nelle orecchie la bella risata dei «pidocchi borghesi». Scrivendo queste righe arrossisco ancora. Li sento chiaramente e rivedo i volti canzonatori, irridenti e astiosi – li rivedo senza odio; sono dei volti umani, dopotutto. Tanto vale dire subito, per chiarire questo racconto, che oggi sono console generale di Francia, membro della Liberazione, ufficiale della Legion d’Onore, e che se non sono diventato né Ibsen né D’Annunzio non è che non abbia tentato.
E che non vi siano dubbi: mi vesto a Londra. Ho orrore del taglio all’inglese, ma non ho scelta.
Credo che nessun altro avvenimento abbia tanto influenzato la mia vita quanto lo scoppio di quelle risa (…) Devo ad esso quel che sono oggi. Sia in bene che in male, quella risata sono io.
La mamma stava in piedi nella burrasca, a testa alta, stringendomi contro di sé. Non c’era in lei traccia d’imbarazzo o di umiliazione. Sapeva.”
Per quanto riguarda lo stile dell’autore, c’è da dire che, sebbene segua un ordine – a grandi linee – cronologico, non ha alcuna difficoltà a lasciarsi andare alle divagazioni. A differenza di tutti coloro che ritengono che le divagazioni siano da evitare, Gary le utilizza come traccia per i suoi racconti. Si lascia guidare dai ricordi, confidando nella loro capacità di comportarsi come le ciliegie: uno tira l’altro. E, straordinariamente, funziona: non solo il racconto risulta più fluido e non sembra un elenco di fatti e aneddoti, ma anche l’attrazione che esercita sul lettore è maggiore. È uno di quei libri che, una volta iniziati, è difficile smettere di leggere.
Oltre a ciò, l’impressione di onestà che avevo riscontrato nei pochi brani letti online è stata confermata: per quanto pervaso da una certa dose di auto-ironia, il testo mantiene comunque una schiettezza disarmante. L’autore non ha alcuna remora nel narrarci fatti di cui chiunque si vergognerebbe: che, nella sua adolescenza, ha mangiato una scarpa per amore, che giocava a un gioco pericolosissimo per il quale bisognava spingersi lungo un cornicione, che ha avuto veramente poche occasioni di combattere e di farsi onore durante la guerra, … Non indugia, non tentenna: ci apre il suo cuore e ci racconta le cose come stanno.
Eppure, c’è un fatto che non quadra in tutta questa faccenda. Una nota che stona. L’anello che non tiene. Più volte, nella narrazione, Romain dichiara di essere una di quelle persone che non riescono a disperare. Per quanto la vita li metta alla prova, li deluda, dimostri l’inesistenza di una giustizia cosmica, l’inesistenza di un pensiero che guida le azioni del mondo, lui non riesce a disperarsi. Mantiene sempre una certa dose di ottimismo, eredità della madre, che non ha mai dubitato di cosa sarebbe diventato, e del suo cuore rimasto sempre bambino. Per questo motivo non mi spiego perché, vent’anni dopo la pubblicazione di questo libro, Romain Gary si sia suicidato. Le spiegazioni sono due: o mentiva ed era in grado di disperarsi, oppure la vita l’ha bastonato così tanto, in quei vent’anni, da non permettergli di tollerare la vista di un mondo tanto diverso da quello che sua madre gli aveva dipinto.
Eppure, la percezione di una grande franchezza si riflette anche nella presenza di una importante dimensione etica: di questi tempi non è più di moda dire la propria opinione sui fatti, parlare di bene e di male, di giustizia, di amore. Non è di moda ed è percepito come strano, soprattutto se la nostra opinione non rientra nel solco tracciato da tutti gli altri. Gary ha il coraggio (o forse la rassegnazione) di dire esattamente come la pensa, senza scusarsi né giustificarsi, semplicemente, senza alcun problema.
E questo rende il libro, più che una raccolta di memorie, una raccolta di pensieri, di riflessioni, di considerazioni.
Come quella sull’amore materno.
“«Non ci sarà mai un’altra donna, nella vita, che ti vorrà bene a quel modo. Questo è certo.»
Era certo. Ma non lo sapevo. Soltanto quando raggiunsi la quarantina cominciai a capirlo. Non è bene essere tanto amati, così giovani, così presto. Ci vengono delle cattive abitudini Si crede che ci sia dovuto. Si crede che un amore simile esista anche altrove e che si possa ritrovare. Si guarda, si spera, si aspetta. Con l’amore materno la vita ci fa all’alba una promessa che non manterrà mai. In seguito si è costretti a mangiare gli avanzi, fino alla fine. Ogni volta che una donna ci prende tra le braccia e ci stringe al cuore, si tratta solo di condoglianze. Si ritorna sempre a guarire sulla tomba della propria madre come un cane abbandonato. Mai più, mai più, mai più. Braccia adorabili si chiudono intorno al nostro collo e labbra dolcissime ci parlano d’amore, ma noi sappiamo già tutto. Noi siamo stati alla sorgente troppo presto e abbiamo bevuto tutto. Quando ci riprende la sete, si ha un bel cercare da ogni parte: non ci sono più pozzi, soltanto miraggi. Abbiamo fatto, alla prima luce dell’alba, uno studio approfondito dell’amore e ci siamo documentati troppo bene. Dovunque andremo, porteremo con noi il veleno dei confronti; e passiamo il tempo aspettando ciò che abbiamo già avuto.”
Lo straordinario potere di questo libro, però, sta nell’empatia: anche se il nostro vissuto è profondamente differente da quello dell’autore, non possiamo non provare per lui una profonda empatia, come se ci trovassimo a condividerne la sorte (consorte vuol dire questo, chi condivide con te la sorte) e improvvisamente provassimo ciò che prova lui.
Non solo con la madre: anche nei capitoli della guerra (la seconda guerra mondiale), che pure, personalmente, ho trovato meno interessanti rispetto ai primi. Perché non succede quasi nulla: tutto quello che succede accade nell’anima del giovane Romain oppure avviene con una lentezza sfiancante. Credo, però, che questa lentezza sia voluta, per dare al lettore l’impressione di come doveva essere, allora, attendere senza sapere quale sarebbe stato il proprio destino.
Infine, il finale vi lascerà senza fiato dalle lacrime. Perché, dopotutto, anche noi crediamo, in un qualche modo, in una minima giustizia divina – ci ha abituato la letteratura, ci hanno abituato i film, le favole, le madri – e vedere così chiaramente lo strappo nel cielo di carta che ci rivela che essa potrebbe non esistere è semplicemente terribile.
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